Prendersi cura della comunità cristiana

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Alcune sollecitazioni teologico-pastorali dal 3° incontro del breve corso di Formazione Passo dopo passo. L’arte di accompagnare la vita del 30 gennaio scorso.

Mons. Roberto Repole, arcivescovo di Torino dal 2022, ha focalizzando il tema generale della sollecitudine e la cura della comunità cristiana, dividendo il suo intervento in due parti: l’oggetto della cura, cioè la Chiesa, e le molteplici declinazioni con le quali questa cura si attua o si può attuare non solo nella Chiesa ma anche nella società civile. Mi permetto di fare solo alcune sottolineature che mi sono parse interessanti.

La Chiesa non è una istituzione “asettica”, afferma il relatore, ma è la comunità dei credenti in Cristo che si esprime concretamente e localmente attraverso donne e uomini, laici e clero nelle diocesi, di cui le parrocchie sono emanazione, e nella comunione tra tutte le diocesi del mondo.
Questa comunità esiste e vive non per una scelta spontaneistica dei fedeli, ma perché è convocata (= ecclesia) e raccolta da Dio, che ne rimane la radice.

Mons. Repole a partire dall’insegnamento del Concilio Vaticano II (Lumen Gentium) ricorda che la comunità cristiana misteriosamente proviene da Dio, grazie a Gesù e allo Spirito; è luogo della Sua presenza, destinata a riportare tutta l’umanità in Dio. Detto così, la presenza della Chiesa risponde anche alle nostre domande fondamentali: perché esisto/esistiamo? quale il senso della convivenza umana? dove siamo diretti? Molto distante dall’immagine stereotipata e banalizzante della Chiesa come istituzione dei preti e del papa.

Se Dio è la radice della Chiesa, la cura, la sollecitudine per la comunità cristiana non può che porre attenzione alla Sacra Scrittura, alla celebrazione dei Sacramenti, abbandonando sciatterie e tradizionalismi, alla formazione spirituale non solo dei fedeli ma anche dei presbiteri.
La cura non può che alimentare la fede, considerata come principio di socializzazione della comunità cristiana, come passione per, originata da una relazione vivente con Cristo. Si curi dunque la pari dignità dei cristiani, perché tutti sono in Cristo ugualmente figli, valorizzando la diversità e l’unicità delle persone, per cui ogni credente agisce in modi diversi ed è insostituibile.

C’è bisogno di una cura della ministerialità plurale, dove accanto al servizio dei sacerdoti c’è quello degli animatori della liturgia, di coloro che “guidano” le comunità in assenza del prete, degli attori della carità… in un contesto sinodale, dove la comunità è soggetto in senso pieno e non mero “campo” pastorale.

Mons. Repole insiste ancora sulla cura della fraternità, che definisce espansa, cioè che va oltre le azioni strettamente parrocchiali, sostenendo tutto quanto (opere sociali, ospedali, centri di accoglienza…) si può realizzare insieme agli uomini e donne di buona volontà. In tal modo la sollecitudine per la comunità cristiana, aprendosi a tutti, diventa una cura a tutto campo che interpella e incrocia la libertà dell’altro.

Roberto (Ac Lizzana)