Perché pregare oggi?
Intervento arcivescovo Lauro Tisi all’incontro promosso da Azione Cattolica
(Vigilianum, 5 ottobre 2017)
Questa sera vorrei parlare dei “fondamentali” della preghiera. Parto da una constatazione: noi siamo soliti dire: se uno è credente prega. Per cui, nel nostro immaginario, prima c’è il credente, e poi viene l’orante. Non immaginiamo un orante prima del credente. Anzi, ci pare impossibile poter parlare di orante senza l’esperienza di aderire a un qualche credo. Io capovolgo l’ordine: il credente viene dopo; l’orante viene prima e l’orante è un dato antropologico dell’uomo. Un bimbo, quando viene al mondo, lancia un grido; mi pare che tutti abbiamo lanciato un grido; abbiamo pianto per poter venire al mondo, e se non piangevi ti inducevano il pianto . Quel grido dice un’apertura, dice un trascendere sé stessi, dice un domandare. Ricordo un preziosissimo intervento di Hans Urs von Balthasar proprio sul fatto che si viene al mondo pregando, si viene al mondo anelando, tendendo la mano, gridando: “ho bisogno!”.
Si lascia il mondo pressappoco nella stessa situazione. Dico di più: l’esistere è semplicemente un trascendere, un uscire. E, visto che io sono il fissato del narcisismo, dico che in realtà narcisisti non ne esistono allo stato puro, perché tutti sono degli indigenti, perché in qualche maniera, da qualche parte devono uscire fuori, e se non escono verso gli altri, escono verso le cose. Ma nessuno è in grado di autogestirsi. Il sogno dell’autogestione è coltivato nel nostro cuore giorno e notte, ma in realtà l’autogestione non è praticabile, perché noi in ogni momento siamo “oltre” noi. E siamo degli indigenti che gridano: questa è la prima preghiera e questa viene prima dell’elaborazione concettuale di un credo, di una concezione su Dio o quant’altro. Il grido appartiene all’umano, l’uomo è “grido” in sé stesso. E allora: prima viene l’orante e poi, piano piano, emerge anche il credente. La preghiera viene prima del credere e appartiene al DNA del nostro “essere uomini” ed è indipendente dalle culture, dalle religioni, dalla Chiese.-
“Si viene al mondo tendendo la mano, si lascia il mondo chiedendo la mano”: anche questa potrebbe essere un’icona dell’uomo che esce da se stesso. Dico questo perché, senza questa base, della preghiera non capiamo niente. E già qui insinuo una seconda provocazione: un conto è “la preghiera” e un conto sono “le preghiere”, che a volte non sono preghiera. La preghiera è una sola, la preghiera è l’uomo che si porta fuori di sé e incontra: è un atto di tutto l’uomo. Esiste solo la preghiera, non le preghiere: poi abbiamo il formulario, le preghiere, ma esse funzionano se esprimono l’”esodo esistenziale” da sé stessi verso un incontro, sennò sono parole al vento.
E noi quando parliamo di preghiera rischiamo di parlare delle preghiere, delle formule e non parliamo della preghiera come del bisogno umano di uscire e di incontrare. L’uomo non solo è grido, ma è anche trascendenza, perché va oltre se stesso; l’uomo è strutturalmente “incontro”, è un “cercatore di incontro” e se non lo trova in un volto, lo trova in una realtà inanimata. Ma a qualcuno o a qualcosa si appoggia: non esiste nessuno che non si appoggi; basterebbe questa considerazione per andare a cambiare la struttura del nostro vivere umano. Perché noi andiamo contro natura, perché spesso nel nostro agire concreto poi, non rispettiamo questa struttura esistenziale che “si appartiene” non perché siamo della religione “a”, “b” o “c”, ma perché siamo uomini e donne e in quanto tali sono grido e incontro.
Siamo ogni giorno bombardati dai dati sulle dipendenze; penso, ad esempio, alla dipendenza dalle droghe. Cosa dice quella dipendenza? Che c’è una domanda di significato per la vita, che non stai bene quindi non “ti abiti” e hai bisogno di qualcuno, di qualcosa… Accanto agli stupefacenti c’è la dipendenza dall’alcool, dal sesso…, ma tutte queste dipendenze – nel mondo giovanile si registra un tasso altissimo –, dicono che i giovani sono “pieni di preghiera”. Si potrebbe ribattere: “Non vengono alle nostre celebrazioni…”. Io dico: prima vediamo se le nostre celebrazioni sono preghiera o se invece sono apparato, struttura.
Non è questione di dare in mano un libro o una formula, ma è questione di educare all’esodo da sé che è la base senza la quale preghiera non c’è, non decolla la “preghiera –incontro”. Tutti preghiamo, ma non sempre avviene l’incontro; tutti preghiamo in quanto gridiamo, ma non sempre scatta l’incontro.
Purtroppo questa dimensione costitutiva dell’essere persona, purtroppo è la dimensione più calpestata dentro quest’ora della storia dove il protagonista è il punto esclamativo e non il punto di domanda. Tutti danno risposte, calano sentenze, ma questo strozza il grido. Potrebbe esserci invece un clima diverso, quello che “libera” preghiera, se fossimo in una realtà dove la domanda la fa da padrone. Il primitivo che usciva dalla caverna e vedeva l’uragano e i fulmini e non aveva il parafulmine, si faceva delle domande, poi ipotizzava che lì c’è qualcuno, qualcosa di divino e probabilmente quella situazione gli forniva materiale per pregare, magari una preghiera di grido, di paura …; la situazione di quella stagione che ci lasciamo alle spalle del secolo scorso fatta di guerra, di indigenza era una situazione che poneva domande: perché si prega sotto le bombe? Perché quando vedi morire le persone o ti trovi sull’Adamello, come cent’anni fa, per mesi e mesi al gelo a fare una guerra assurda, qualche domanda sull’uomo, sul senso della vita ti accompagna… Faccio qualche altro esempio: perché a volte i nostri amici migranti li vediamo pregare, a differenza di noi? Perché quella precarietà scatena domande, interrogativi. E allora: perché la preghiera se ne è andata un po’ in disuso? Perché, come dice il Salmo, “l’uomo nella prosperità non comprende”. Abbiamo un ritmo-vita che non permette nessuna domanda, siamo sempre lì ad annaspare e non abbiamo un terreno che facilita le domande. La preghiera, quindi, viene umiliata. Ma la preghiera è un dato antropologico, ci appartiene, fa parte del DNA come il bisogno di mangiare, perché ha a che fare con la domanda di senso, schiacciata per anni nella stagione dell’over-dose di consumismo. Tu la schiacci di qui e, come l’acqua, viene fuori di là. Ed è quello che sta succedendo. Non c’è stata possibilità di liberare il grido, anzi l’hanno preso in giro questo grido, considerandolo inutile retaggio del passato. In verità cresce, nel nascondimento delle nostre case, tantissima preghiera – anche in forme arcaiche, tentativi di dialogare col cosmo…
Anche il nostro apparato ecclesiale ha favorito la “morte” della preghiera; semplicemente perché siamo stati superficiali e anziché educare a cosa vuol dire pregare, agli elementi che entrano in un atto di preghiera, al clima che va creato, noi abbiamo dato in mano formule, pagine e pagine…
I migliori nella preghiera sono i bambini; ma bisogna liberare la loro preghiera, bisogna accompagnarli. E invece noi, dall’interno, abbiamo spesso tolto il gusto del pregare.
All’Assemblea diocesana vi ho detto che “si crede col corpo”. Si prega – anche – col corpo. Non si prega col cervello, si prega col corpo; e allora va ad. es. creata una “camera di decantazione” prima di pregare. Senza decantazione non avviene preghiera. Bisogna avere la decantazione, preparare il corpo e preparare lo spazio, e avere anche un minimo di ambientazione perché c’è bisogno anche del contesto ambientale e certe Chiese, ad esempio, aiutano meno di altre. Noi ci muoviamo nella preghiera con l’intero corpo, non è frequentazione di idee, è frequentare un volto, è incontrare l’incanto. Ѐ l’incontro con l’ amato del tuo cuore.
Vi è una bellissima descrizione dell’adorazione fatta da Benedetto XVI a Colonia, dove spiega l’adorare, il bacio bocca a bocca: quelli sono i terreni di riferimento.
Aggiungo un’altra piccola riflessione a partire dalla domanda: “Chi è Dio per me?”. Se quel volto di Dio è un volto indistinto, di una realtà anonima, ci sarà una preghiera che lascia il tempo che trova; cito l’”Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI, dove dice una cosa meravigliosa: “il Creatore non è potenza anonima e lontana, ma il Creatore è il Padre”. Anche per noi il Padre o non è una potenza anonima e lontana? Chiediamocelo. Perché, se è una potenza anonima e lontana, allora c’è quel sospiro, speriamo che “el varda en zo”, per dirla in dialetto trentino. Oppure, in un’ottica molto mercantile: “Preghi Lei che e più vicino a Dio…”. Qui non si è capito chi è Dio. E qui spezzo l’altra lancia: chi Lo svela ha un nome e un cognome: Gesù di Nazareth. Ancora Paolo VI dice: “Evangelizzare è testimoniare in maniera semplice e diretta Dio rivelato da Gesù Cristo nello Spirito Santo; testimoniare che nel suo Figlio ha amato il mondo”.
Allora, adesso ho tirato dentro l’attore che può svelarci il volto di Dio. Abbiamo la possibilità di incontrarLo grazie allo Spirito Santo. Quindi non ci può essere preghiera cristiana senza esser guidati dallo Spirito. E qui cito le parole di Paolo: “Nei nostri cuori lo spirito grida Abbà Padre”. E ancora: “Perfino la creazione grida”.
Allora la preghiera è ascoltare il grido che è dentro di te, che viene prima del tuo credere, del tuo venire a consapevolezza razionale: dentro di te c’è una chiamata a incontrare l’ Abbà. Dicevo che ogni uomo, prima ancora di cominciare a muovere i primi rudimenti del suo essere uomo, si ritrova dentro quel “grido”; ma ritrova dentro quel grido anche la necessità di incontrare un ‘Abbà’ e quel grido non ti è insegnato dalla teologia o da una religione o da una catechesi, quello te l’ha messo dentro Dio, come strutta tua portante.
Chi è questo ‘Abbà’? Ѐ il papà. C’è una domanda di incontrare il Padre. L’Abbà di cui parla Paolo e che è quello che è dentro di noi, non è la proiezione di un grande papà o di una grande mamma umana; è un’altra paternità, di un altro livello e dimensione; è quella rivelata dal crocifisso, dove avviene un’operazione meravigliosa. Su quella Croce noi abbiamo la dichiarazione, non delle chiacchere, ma di una vita, di una carne che così muore; la dichiarazione che per Dio ogni uomo resta un incanto, anche se è distrutto dal peggiore peccato di questo mondo. Quel grido della Croce sanziona il valore infinito di ogni uomo. Anche a Giuda vien detto “amico”. E tu rimani incanto per quel Dio che giorno e notte questo cerca il cuore dell’uomo. E ne diviene riscattatore, uno che non giudica, non condanna, e lo considera comunque un incanto. Questo è il Dio cristiano, niente di meno di questo. E questo non è il sogno antropologico che hanno tutti ? Non sogniamo tutti di non essere condannati e giudicati? Gesù di Nazareth che muore dichiarando l’uomo un incanto. Capite che pregare non è un’operazione per spiriti religiosi, ma un’operazione straordinariamente umanizzante.
E, allora, la preghiera è un atto profondamente umano, corporeo, concreto, e quando preghi diventi pienamente uomo. Quando preghi arrivi anche per un istante a incrociare l’incanto del tuo Signore; ma allora ecco che lo Spirito, per portarci a quell’incanto, si serve di chi? Si serve anche della Parola di Dio; quindi non si può pregare senza passare per la Parola di Dio che mi narra di Dio. In questo senso la preghiera del Rosario è bellissima, perché Parola di Dio dal momento che contempliamo i fatti della vita di Gesù di Nazareth. La Parola di Dio è un veicolo che mi parla di questo incanto, ma la Parola abitata dallo Spirito. Non tutti, sotto la croce, hanno avuto lo stesso esito da quel grido finale, perché dalla libertà uno può anche sottrarsi. Altra zona con cui lo Spirito ti porta quell’incanto: i gesti di Gesù di Nazareth passati al corpo ecclesiale, agli uomini; un fratello cristiano che si piega e che ti da prossimità gratuita, diventa rivelatore di Dio. Ecco perché ho detto all’ Assemblea diocesana: “Dobbiamo essere corpo ecclesiale e mostrare Dio e non solo parlare di Dio”. E tu lo mostri in quella gratuità; anche quello è un terreno importante su cui può fiorire la preghiera cristiana. Un’altra zona con cui lo Spirito ti parla è l’incanto del creato: lo Spirito ha mille sfaccettature per arrivare al tuo cuore. Talvolta questo Dio ti raggiunge nella stanza del peccato: quante volte, nel Vangelo, vediamo che la stanza del fallimento morale diventa la stanza dell’incontro: “Le sono perdonati i molti peccati, perché molto ha amato…” .
Quello che mi premeva dirvi innanzitutto era che la preghiera è atto umano che appartiene al nostro DNA e se raggiunge l’incontro tu stai bene; se rimane mozzata, ne va della tua vita. Perché, alla fine, non trovi più il senso della vita. Un senso che senza quell’incanto scende a un livello più basso. Se non c’è quell’incanto descritto, chi spiega la tua vita? Forse la tua professione? Finché tiene. La carriera? Finché tiene. il plauso degli altri? Ѐ l’essere magari vincente sul piano della leadership? Sono tutte riposte che prima o poi rivelano la loro debolezza. E allora devi buttarti sulla dipendenza per stare in piedi; ma se invece ti arriva l’incanto e frequenti quell’incanto lì, esso riscatta tutti i tuoi fallimenti e ti dà una nuova visione sul mondo, perché se io percepisco l’incanto di Dio, probabilmente, umanamente sarò un misericordioso; se percepisco l’incanto di Dio non farò “fake-news” contro i miei fratelli, forse non manderò in onda insulti sui social, la mia vicina così insopportabile forse diventerà semplicemente una bisognosa a cui voler bene …
Ma allora la preghiera è una formidabile operazione di umanizzazione.
Qualcuno mi dirà: “Della Messa non ha detto niente!”. Questi sono i fondamentali, su cui poi metti le perle.
Chiaro: se per me Dio è l’incanto, il gesto eucaristico diventa fons! Se ho percepito l’incanto di quel Dio, sto davanti all’Eucarestia e non ho bisogno del libretto, ma “Io Lo guardo, Lui mi guarda…”, come dice il Curato d’Ars.
Dobbiamo avere l’umiltà di camminare dentro la fatica e l’oscurità che attraversa l’orante; essere orante vuol dire anche avere coraggio di attraversare la notte. Non pensate che sia una passeggiatina la preghiera, come non è una passeggiatina nessun incontro vero! Realizzare un incontro con un altro non è a buon mercato, non è uno schiocco di dita; è una fatica, perché vuol dire riconoscere – torno al mio Dio mite dell’Assemblea – lasciare esistere, lasciare che l’altro abbia spazio, accettare che mi dica di no… è un’operazione da far tremare le vene e i polsi.
Allora bisogna compiere piccoli passi, e non a caso un uomo di Dio come S. Agostino nei suoi scritti dice: “… preghiere brevi, ma soprattutto preghiere dove ti sforzi di percepire una presenza”.
Ѐ un percorso che, se vissuto pienamente, può anche comportare di arrabbiarsi con Dio: anche quello può essere altissima preghiera. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: Gesù prova paura e angoscia, mentre affrontava il dramma umano di lasciare la terra solo, abbandonato da tutti.
Pregare vuol dire andare davanti a Dio mai da soli, sempre coi fratelli; non posso arrivare davanti a Dio io e tu no… per essere sicuro che ho incontrato questo incanto, devo tirarmi dietro i miei fratelli, devo arrivare lì con qualcuno. Si deve arrivare sempre a Dio accompagnati: e allora sei sicuro che sei nell’incanto giusto, se no sei in un io/tu che puzza di autoreferenzialità, di qualcosa che non funziona, perché quando incontri quell’incanto cosa ti fa vedere? Il panorama dei tuoi fratelli e allora la preghiera è una formidabile occasione per diventare fratelli e diventare Chiesa, perché dall’incanto di Dio che mi guarda con il suo amore cosa vien fuori? Che io guardo gli altri in un modo diverso, e allora è quella formidabile operazione sociale che ci rende finalmente fratelli e sorelle.
Volevo solo farvi venir voglia di pregare, di starci dentro e di sentire che essa non è niente di aggiunto alla vita, ma è, semplicemente, ascoltare sé stessi.