L’Esortazione apostolica di Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo GAUDETE ET EXSULTATE in una sintesi e commento curato dall’Azione cattolica nazionale (www.azionecattolica.it).
Non un “trattato” ma un invito a far risuonare nel mondo contemporaneo una vocazione universale, la chiamata a diventare santi. È questo l’obiettivo dichiarato di Papa Francesco per l’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, resa nota oggi. Si diventa santi vivendo le Beatitudini, la strada maestra perché “controcorrente” rispetto alla direzione del mondo. Si diventa santi tutti, perché la Chiesa ha sempre insegnato che è una chiamata universale e possibile a chiunque, lo dimostrano i molti santi “della porta accanto”. La vita della santità è poi strettamente connessa alla vita della misericordia, “la chiave del cielo”. Dunque, santo è chi sa commuoversi e muoversi per aiutare i miseri e sanare le miserie. Chi rifugge dalle “elucubrazioni” di vecchie eresie sempre attuali e chi, oltre al resto, in un mondo “accelerato” e aggressivo “è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo”.
Non un “trattato” ma un invito
È proprio lo spirito della gioia che Papa Francesco sceglie di mettere in apertura della sua ultima Esortazione apostolica. Il titolo “Gaudete et exsultate”, “Rallegratevi ed esultate”, ripete le parole che Gesù rivolge “a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua”. Nei cinque capitoli e le 44 pagine del documento, il Papa segue il filo del suo magistero più sentito, la Chiesa prossima alla “carne di Cristo sofferente”. I 177 paragrafi non sono, avverte subito, “un trattato sulla santità con tante definizioni e distinzioni”, ma un modo per “far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità”, indicando “i suoi rischi, le sue sfide, le sue opportunità” (n. 2).
La classe media della santità
Prima di mostrare cosa fare per diventare santi, Francesco si sofferma nel primo capitolo sulla “chiamata alla santità” e rassicura: c’è una via di perfezione per ognuno e non ha senso scoraggiarsi contemplando “modelli di santità che appaiono irraggiungibili” o cercando “di imitare qualcosa che non è stato pensato” per noi (n. 11). “I santi che sono già al cospetto di Dio” ci “incoraggiano e ci accompagnano” (n. 4), afferma il Papa. Ma, soggiunge, la santità cui Dio chiama a crescere è quella dei “piccoli gesti” (n. 16) quotidiani, tante volte testimoniati “da quelli che vivono vicino a noi”, la “classe media della santità” (n. 7).
La ragione come dio
Nel secondo capitolo, il Papa stigmatizza quelli che definisce “due sottili nemici della santità”, già più volte oggetto di riflessione tra l’altro nelle Messe a Santa Marta, nell’Evangelii gaudium come pure nel recente documento della Dottrina della Fede Placuit Deo. Si tratta dello “gnosticismo” e del “pelagianesimo”, derive della fede cristiana vecchie di secoli eppure, sostiene, di “allarmante attualità” (n. 35). Lo gnosticismo, osserva, è un’autocelebrazione di “una mente senza Dio e senza carne”. Si tratta, per il Papa, di una “vanitosa superficialità, una “logica fredda” che pretende di “addomesticare il mistero di Dio e della sua grazia” e così facendo arriva a preferire, come disse in una Messa a S.Marta, “un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo” (nn. 37-39).
Adoratori della volontà
Il neo-pelagianesimo è, secondo Francesco, un altro errore generato dallo gnosticismo. A essere oggetto di adorazione qui non è più la mente umana ma lo “sforzo personale”, una “volontà senza umiltà” che si sente superiore agli altri perché osserva “determinate norme” o è fedele “a un certo stile cattolico” (n. 49). “L’ossessione per la legge” o “l’ostentazione della cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa” sono per il Papa, fra gli altri, alcuni tratti tipici dei cristiani tentati da questa eresia di ritorno (n. 57). Francesco ricorda invece che è sempre la grazia divina a superare “le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo” (n. 54). Talvolta, constata, “complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema”. (n. 59)
Otto strade di santità
Al di là di tutte “le teorie su cosa sia la santità”, ci sono le Beatitudini. Francesco le pone al centro del terzo capitolo, affermando che con questo discorso Gesù “ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi” (n. 63). Il Papa le passa in rassegna una alla volta. Dalla povertà di cuore, che vuol dire anche austerità di vita (n. 70), al “reagire con umile mitezza” in un mondo “dove si litiga ovunque (n. 74). Dal “coraggio” di lasciarsi “trafiggere” dal dolore altrui e averne “compassione” – mentre il “mondano ignora e guarda dall’altra parte” (nn. 75-76) – al “cercare con fame e sete la giustizia”, mentre le “combriccole della corruzione” si spartiscono la “torta della vita” (nn. 78-79). Dal “guardare e agire con misericordia”, che vuol dire aiutare gli altri” e “anche perdonare” (nn. 81-82), al “mantenere un cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore” verso Dio e il prossimo (n. 86). E infine, dal “seminare pace” e “amicizia sociale” con “serenità, creatività, sensibilità e destrezza” – consapevoli della difficoltà di gettare ponti tra persone diverse (nn. 88.-89) – all’accettare anche le persecuzioni, perché oggi la coerenza alle Beatitudini “può essere cosa malvista, sospetta, ridicolizzata” e tuttavia non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto attorno a noi sia favorevole” (n. 91).
La grande regola di comportamento
Una di queste Beatitudini, “Beati i misericordiosi”, contiene per Francesco “la grande regola di comportamento” dei cristiani, quella descritta da Matteo nel capitolo 25 del “Giudizio finale”. Questa pagina, ribadisce, dimostra che “essere santi non significa (…) lustrarsi gli occhi in una presunta estasi” (n. 96), ma vivere Dio attraverso l’amore agli ultimi. Purtroppo, osserva, ci sono ideologie che “mutilano il Vangelo”. Da un parte i cristiani senza rapporto con Dio, “che trasformano il cristianesimo in una sorta di ONG” (n. 100). Dall’altra quelli che “diffidano dell’impegno sociale degli altri”, come fosse superficiale, secolarizzato, “comunista o populista”, o lo “relativizzano” in nome di un’etica. Qui il Papa riafferma per ogni categoria umana di deboli o indifesi la “difesa deve essere ferma e appassionata” (n. 101). Pure l’accoglienza dei migranti – che alcuni cattolici, osserva, vorrebbero meno importante della bioetica – è un dovere di ogni cristiano, perché in ogni forestiero c’è Cristo, e “non si tratta – afferma reciso – dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero” (n. 103).
Dotazioni di santità
Rimarcato dunque che il “godersi la vita”, come invita a fare il “consumismo edonista”, è all’opposto dal desiderare di dare gloria a Dio, che chiede di “spendersi” nelle opere di misericordia (nn. 107-108), Francesco passa in rassegna nel quarto capitolo le caratteristiche “indispensabili” per comprendere lo stile di vita della santità: “sopportazione, pazienza e mitezza”, “gioia e senso dell’umorismo”, “audacia e fervore”, la strada della santità come cammino vissuto “in comunità” e “in preghiera costante”, che arriva alla “contemplazione”, non intesa come “un’evasione” dal mondo (nn. 110-152).
Lotta vigile e intelligente
E poiché, prosegue, la vita cristiana è una lotta “permanente” contro la “mentalità mondana” che “ci intontisce e ci rende mediocri” (n. 159), il Papa conclude nel quinto capitolo invitando al “combattimento” contro il “Maligno” che, scrive, non è “un mito” ma “un essere personale che ci tormenta” (nn. 160-161). Le sue insidie, indica, vanno osteggiate con la “vigilanza”, utilizzando le “potenti armi” della preghiera, dei Sacramenti e con una vita intessuta di opere di carità (n. 162). Importante, continua, è pure il “discernimento”, particolarmente in un’epoca “che offre enormi possibilità di azione e distrazione” – dai viaggi, al tempo libero, all’uso smodato della tecnologia – “che non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio” (n. 29). Francesco chiede cure specie per i giovani, spesso “esposti – dice – a uno zapping costante” in mondi virtuali lontani dalla realtà (n. 167). “Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo”. (n.174)