Dal 16 al 18 aprile si svolge il XVII Congresso Mlac Il lavoro che cambia, dopo la pandemia.
Il programma
Inizierà con un momento di preghiera nella serata del 16 Aprile alle 21; il 17 aprile verrà affrontata la questione del lavoro illuminandolo da tre punti di vista diversi: l’aspetto pastorale con la presenza di mons. Marco Arnolfo (vescovo di Vercelli e componente del Comitato scientifico delle Settimane sociali); l’aspetto legislativo con il professor Massimo Miglioretti (docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università di Milano Bicocca); l’aspetto sociologico con Serena Quarta (ricercatrice in Sociologia generale e docente di Metodologia delle Scienze Sociali presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Salerno). Porterà il suo saluto don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro. L’appuntamento è sulla piattaforma https://xviicongressomlac.azionecattolica.it/ nei giorni 16-18 Aprile.
Abbiamo ripreso il tema del lavoro nel tempo di pandemia nella pagina di attualità della nostra rivista diocesana Camminiamo Insieme aprile 2021, a cura dell’addetto stampa dell’Ac trentina Alessandro Cagol:
Carissimi, vorrei aver scritto questo mio articolo di approfondimento in un periodo in cui, con il risveglio della natura, anche noi esseri umani ci fossimo risvegliati come da un incubo per riaffollare le strade, pasteggiare in riva al lago, dormire su un prato in montagna; e invece siamo ancora chiusi in una bolla… sperando che quando il lettore seguirà questo mio articolo, possa già essere in uno dei posti indicati, magari con un bel gelato in mano!
Ancora Covid e ancora la famosa frase: “Nulla sarà più come prima!”. Se solo affrontiamo il mondo del lavoro ci accorgiamo dei profondi cambiamenti in essere, diretti o indiretti. Mi soffermo oggi a parlare di smart working, che tradotto dall’inglese vuol dire “lavoro intelligente”.
Anche le persone meno informate sanno che lo smart working è nato come soluzione al rischio di aumentare i contagi in ambienti lavorativi spesso chiusi in grandi palazzi di vetro con aria condizionata e nessuna finestra aperta, in cui il datore di lavoro, in base ad una legge ufficiale, decide che gran parte dello staff debba letteralmente “portarsi il lavoro a casa”. Un dramma forse una ventina di anni fa, quando tutti i supporti erano cartacei, quando bisognava spostarsi da un ufficio all’altro per avere dei dati e stampare le informazioni. Molto più semplice dopo il 2000, nell’era digitale e nella digitalizzazione crescente, dove tutto è facilmente consultabile attraverso un buon computer che non è l’oracolo, ma il mezzo per collegarsi con una buona rete (un buon collegamento internet) all’ufficio stesso dove attraverso un server (chiamatelo anche contenitore di dati), potrà elaborare qualsiasi informazione. Ad esempio: i giornalisti fanno la riunione di redazione da casa via zoom o skype o altri programmi di collegamento audio e video ora affidabili proprio grazie alla velocità delle linee attraverso la fibra ottica; poi scrivono i loro articoli, scelgono le foto dal mega archivio collegato in ufficio e impaginano il giornale. Quelle pagine saranno a disposizione online di tutti coloro che devono metterci mano, dai correttori ortografici agli agenti pubblicitari per le inserzioni, al direttore naturalmente, fino alla tipografia. Basta auto in giro, galoppini che portano foto, dischi con le pagine da stampare… Stessa cosa nel lavoro d’ufficio, dove una impiegata da casa può svolgere la pratica di una persona che magari chiede un documento; la segretaria verifica le credenziali del richiedente, compila il verbale, lo invia al capo per la firma e lo consegna consegna al richiedente attraverso una posta certificata PEC (cioè un indirizzo esclusivo del richiedente). Alla faccia del Covid, quindi, tutto sembra funzionare a meraviglia e anzi si risparmia riscaldamento in ufficio, corrente elettrica, pause caffè, ecc…
Ma è tutto oro quel che luccica? Alcune domande: e se il dipendente pubblico a casa lavora meno che in ufficio, intento a custodire i figli, o a preparare gustose torte? E se mancasse anche per un solo minuto quella relazione diretta tra dirigente e segreteria, dove si potrebbero trovare nuovi elementi di ricerca della posizione di una persona, oppure nuovi stimoli per redarre articoli diversi (vedi giornale)? Pensare di vivere un futuro così “telematico” per fortuna non sembra affascinare molte persone, perché l’uomo è fatto per socializzare, non per chiudersi in casa.
Un altro elemento negativo dello smart working, è il palese rischio di sfruttamento da casa della manodopera, soprattutto femminile perché, come leggo da uno studio di questo fenomeno: «non è stato accompagnato dal controllo sulle variabili che definiscono la correttezza dell’uso della manodopera. Quante ore sono state lavorate in queste settimane di quarantena? Quanta flessibilità negativa è stata reintrodotta nel sistema? Chi l’ha controllata? A quale costo e con quale prospettiva? Ad un costo altissimo per il lavoratore e ancora di più per le lavoratrici, che hanno di fatto smarrito la linea di confine tra sfera privata e sfera pubblica, intensificando i tempi e i ritmi di lavoro, subendo una brusca invasione di campo sul tempo libero a fronte invece delle imprese che hanno ridotto notevolmente i costi legati alla presenza di personale in azienda, eludendo del tutto anche il tema della salute e della sicurezza sul lavoro». Ulteriori ore per formare a distanza, ferie forzate e in alcuni casi una cassa integrazione che libera da responsabilità il datore di lavoro sono altri aspetti negativi nascosti nelle pieghe del lavoro a casa.
Il rischio dello sfruttamento non nasce soltanto in assenza dell’accordo tra le parti di cui parla la legge sullo smart working. L’accordo in questione, infatti, dovrebbe definire gli obiettivi che il lavoratore deve raggiungere durante il periodo di lavoro agile: non conta per quanto tempo si debba svolgere un determinato lavoro, ciò che conta è che gli obiettivi elencati nell’accordo siano raggiunti con le modalità previste. La risposta, in molti casi, non può che essere negativa. In primo luogo, il lavoratore può non avere le conoscenze manageriali e organizzative per conoscere quante ore di lavoro siano necessarie per svolgere i compiti previsti dall’accordo. Inoltre, l’idea dell’accordo individuale sembra presupporre una contrattazione tra individui dotati della stessa forza contrattuale. Ma tutti sanno che il datore di lavoro ha potere molto più ampio rispetto al lavoratore, che con la paura del licenziamento, specie in periodi difficili, rischia una schiavitù lavorativa conseguente ad una innovazione che avrebbe dovuto essere solo un sollievo.
In conclusione viene da domandarsi se questa metodologia lavorativa, nata per tutelare una persona mantenendola in buona salute, alla fine non sia un boomerang che annichilisce la persona e la fa ammalare di depressione se non ossessione da prestazione lavorativa. Situazione che non mi pare tanto “intelligente”, se di smart working parliamo!
Alessandro Cagol