Fine pena: ora «Non c’è bisogno di essere crudeli, basta un’applicazione asettica delle regole senza pensare ai possibili effetti secondi, basta una prudenza un po’ rancida all’insegna del non voler grane, il rifugio anestetico nelle procedure, la prudenza, elevata a sapienza». (pag. 132)
Uno scambio di lettere lungo 26 anni. È questa la spina dorsale di “Fine pena: ora” (Sellerio, 2015): un rapporto epistolare tra Elvio Fassoni, il presidente della Corte che ha comminato l’ergastolo, e Salvatore che l’ha subito. Il libro nasce dalla necessità di rendere giustizia a un uomo che il carcere, la vita, questa stessa frequentazione epistolare hanno cambiato, hanno “rieducato” – come dice la nostra Costituzione all’art. 27 – ma non ha avuto modo di dimostrarlo. Nel libro l’autore riprende tratti delle lettere che Salvatore gli ha scritto e le rilegge con il senno di poi: ora che sono passati 26 anni; ora che Salvatore ha sulle spalle un numero elevatissimo di trasferimenti nei vari istituti carcerari italiani. Ora che, dopo vent’anni, la sua fidanzata l’ha lasciato perché lei sta invecchiando. Ora che anche lui sta invecchiando, che ha ottenuto il diploma elementare, ora che sogna anche quello di terza media e nonostante fatica e “mancanza delle basi” rinuncia a ora d’aria e ginnastica per studiare. Fassone ci racconta, direttamente dalle confidenze del protagonista, di un ergastolano che ogni volta che cambia carcere viene messo in osservazione per alcuni mesi, tanto cosa sono tre mesi rispetto alla vita intera? Che ogni volta che è necessario rafforzare la sicurezza, che lui c’entri o no, perde tutti i benefici fino a quel momento ottenuti; e altre piccole storie di vita vissuta “dentro”. Scrive ora, quando Salvatore, dopo tante promesse, ha perso ogni briciolo di speranza e ha tentato il suicidio. Le riflessioni delle pagine finali del libro sono più teoriche. C’è un invito a confrontarsi sull’utilità/costituzionalità del “fine pena: mai”: non sarebbe più giusto riesaminare la persona dopo un congruo numero di anni di detenzione, ammettendo quindi un cammino, una rieducazione? L’altra riflessione alla quale Fassone invita è quella di come l’opinione pubblica possa essere peso ingombrante sulla bilancia della “applicazione asettica delle regole”, dove un di più di anima farebbe la differenza. Questo ho ammirato nel magistrato che riconosce, umilmente, parlando delle sue lettere, come a volte sia così facile “fare un po’ di bene” andando oltre il “fare bene” il proprio compito. E non ci si rende conto di quali effetti esplosivi questo possa avere.