"AC: valore aggiunto per le parrocchie?"

 

Relazione del Presidente nazionale Luigi Alici all'incontro "interpellACI" con i preti della Diocesi di Trento

 in occasione della Settimana di promozione dell'Azione Cattolica

Trento, 2 febbraio 2007

 

Nel rinnovamento che l’Associazione ha compiuto, con alcuni interventi anche di ordine normativo e statutario, si prevede che ogni Associazione possa costituirsi con un Atto Normativo per ribadire il carattere diocesano dell’Associazione.

’Azione Cattolica sta alla Diocesi come la Presidenza nazionale (lo dico ovviamente con le debite proporzioni) sta alla Conferenza Episcopale, nel senso che ormai è maturata nell’Azione Cattolica e si è ripensata in profondità dopo il Concilio questa consapevolezza: nel radicamento diocesano può sposare totalmente la Chiesa particolare mettendosi al servizio del vescovo in atteggiamento di totale dedizione e conseguente corresponsabilità. Quindi l’approvazione di un Atto Normativo è un elemento molto importante, non é una circostanza formale: l’ AC ha deciso di identificarsi totalmente nella Chiesa locale e di imparare a respirare, a camminare, ad interrogarsi insieme alla Chiesa locale.

 

Come dicevo ieri sera, tra l’autunno di questo anno e la primavera del prossimo anno l’AC celebra i 140 anni dalla fondazione. In un certo senso è come se ci accingessimo a ricordare 2 anniversari: l’anniversario della fondazione che, arrivando alle soglie di un Concilio, in un secolo ha partecipato in maniera diretta alle vicende della Chiesa e del Paese; e un secondo anniversario, quindi 100 più 40 anni, potremmo dire, e cioè ripensare l’AC che ha fatto la scelta religiosa dopo il Concilio e l’ha fatta puntando in maniera particolare sulla diocesanità, sulla dimensione diocesana. E questo anniversario è un’occasione per far crescere l’autocoscienza associativa e non semplicemente un atto di inutile orgoglio storico.

 

Credo sia molto importante quindi questo incontro all’interno di queste iniziative, in un giorno in cui mi pare di aver capito che per la prima volta che viene usata questa sala veramente splendida. Spero che abbia anche un po’ un valore simbolico il fatto che per la prima volta si sia parlato in questa sala di Chiesa diocesana e di come un’associazione di laici intende servirla.

Io ringrazio molto anche don Albino e don Gianpaolo perché hanno fatto un quadro molto interessante e molto preciso. Sarei quasi tentato di andar dietro ad alcune delle questioni che sono state dette dal vicario, però provo prima a dare qualche elemento di cornice e poi eventualmente proverò ad inserirmi su alcune questioni che mi sono state poste.

 

Io credo che soprattutto oggi e in maniera particolare per un’associazione come l’AC sia importante, lo dico con una metafora un po’ banale, provare a chiedersi che ora è, almeno su tre orologi: che ora è nell’orologio della cultura contemporanea; che ora è nell’orologio della Chiesa; che ora è nell’orologio dell’AC.

In questo momento è molto importante che questi tre orologi segnino la stessa ora ed è molto importante che questi incontri, in un certo senso, oltre all’elemento della fraternità e della conoscenza, si aprano ad una forma di discernimento storico, grazie al quale noi impariamo costantemente a sincronizzare questi tre orologi. In epoche in cui le lancette dell’orologio marciavano ad un certo ritmo ci si poteva permettere qualche sfasatura; in un’epoca in cui le lancette dell’orologio girano molto vorticosamente dobbiamo costantemente tenere d’occhio tutti e tre questi orologi per preoccuparci che quanto più possibile questi orologi possano battere all’unisono (anche se l’unisono è un ideale molto alto).

            Per quanto riguarda il primo di questi orologi, io vorrei offrire qualche spunto in maniera molto schematica parlando del valore aggiunto dell’AC, utilizzando anche la scansione temporale che ci è offerta dai 40 anni (e adesso ormai 41) dal Concilio e dai quattro Convegni ecclesiali che si sono celebrati in Italia (e i Convegni ecclesiali, lo sappiamo, sono un regalo che la Chiesa italiana dopo il Concilio ha fatto a se stessa).

In questo arco di tempo nell’orologio della storia bisognerebbe almeno mettere a fuoco tre date che hanno rappresentato delle sfide le cui conseguenze continuano a pesare (e l’onda lunga soprattutto della prima continua a lambirci): il 1968, l’anno della contestazione studentesca; il 1989, l’anno del crollo del muro di Berlino (i grandi fatti dell’89, dice Giovanni Paolo II nell’enciclica “ Centesimus annus”, rappresentano la fine della guerra per una buona parte del mondo); e il 2001, l’attacco terroristico negli Stati Uniti. In fondo queste tre date si portano dietro una serie di conseguenze di carattere culturale sulle quali adesso non abbiamo il tempo di fermarci.

            Nello stesso tempo, l’orologio della Chiesa dopo il Concilio è segnato dalle linee pastorali che i vescovi in 10 anni ci affidano e dai Convegni ecclesiali che a metà del decennio vengono celebrati. Non per rappresentare una parentesi simbolica nella quale si ricaricano le pile e si misura il polso della sintonia cooperativa, per altro cresciuta all’interno della Chiesa: sono Convegni che debbono servire a verificare la ricezione di quelle linee pastorali.

Da questo punto di vista quindi anche il Convegno ecclesiale di Verona, i cui risultati e la sintesi che i vescovi ci offriranno potranno essere oggetto di attenta meditazione, deve essere letto in costante collegamento a “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, perché in quel testo si leggeva la grande sfida della frattura intergenerazionale e cioè del fatto che la mia generazione e la generazione dei miei genitori hanno incarnato la propria fede in un volume di pratiche di vita: hanno vissuto la sessualità, hanno speso i soldi, hanno organizzato il tempo libero, hanno immaginato l’educazione per i figli secondo una serie di pratiche di vita che ai nostri ragazzi sembrano essere sempre più mute o per lo meno non contagiose. I nostri ragazzi vedono, visitano questo volume di pratiche di vita a volte come un parco archeologico che si può visitare nei weekend ma dove è difficile abitare. Un Convegno ecclesiale serve anche per verificare fino a che punto la coscienza di questa sfida è passata nel nostro vissuto ecclesiale; e ci stiamo attrezzando, non in maniera ovviamente faziosa ma in maniera serena e intelligente, a farvi fronte.

Abbiamo visto come dal Convegno ecclesiale di Verona siano venuti una serie di inviti che adesso non richiamo ma che rappresentano in un certo senso un orologio sul quale dovremmo sempre di più sintonizzare il nostro cammino; e cioè il fatto che in una società complessa non bisogna inseguire la complessità.

Non dobbiamo trasformare la complessità esterna in complessità interna nella Chiesa moltiplicando gli eventi, moltiplicando le iniziative, moltiplicando gli uffici, moltiplicando i documenti. Forse la Chiesa si deve scomplicare, deve tornare a ricentrarsi sull’essenziale, a contemplare quel mistero che il papa Benedetto a Colonia ha paragonato a una fissione nucleare e nel discorso della veglia pasquale riproposto a Verona ha paragonato ad una mutazione genetica. Due metafore quindi molto potenti, una tratta dalla fisica e una dalla biologia, per dire che nella resurrezione è accaduto qualcosa e da allora il mondo non è più lo stesso. Probabilmente, una Chiesa abituata alla routine rassicurante dei suoi ritmi pastorali non si lascia più attraversare da questa onda d’urto; perché una fissione nucleare che si rispetti deve produrre una reazione a catena, altrimenti non è una bomba atomica, altrimenti è un petardo; e a volte scambiamo i petardi con le bombe atomiche, da un punto di vista pastorale.

Da Verona viene questo forte invito a ricentrare la pastorale sull’essenziale e a verificare in quale misura questo comporti un rimettere al centro la persona umana; e comporti una pastorale integrata, dove integrata non vuol dire semplicemente più raccordata nelle iniziative, ma vuol dire capace di integrarsi nella unità costitutiva della persona umana, che è il paradigma dell’integrazione con la pastorale.

            Vorrei provare a tener presenti tutte le questioni che in una certa misura stanno dentro a questi due orologi (della storia e della Chiesa), provando a ricollocarli dentro l’orologio dell’Associazione; anche se a volte sinceramente io non amo molto che l’AC parli troppo di se stessa, perché forse questo potrebbe valere in una certa chiusura di cultura per la Chiesa: noi dobbiamo parlare più di Lui e meno di noi. Però, in una certa misura, attraverso questi incontri può essere opportuno verificare in quale misura e capire in questi ultimi anni come possa essere un cammino che si offre al servizio della Chiesa.

Certo, è un cammino che attraverso il rinnovamento statutario e la elaborazione di un nuovo Progetto Formativo, che è stato consegnato simbolicamente a tutte le associazioni nell’autunno 2004 a Loreto in presenza di Giovanni Paolo II nell’ultimo suo pellegrinaggio fuori Roma, ha rappresentato un momento di svolta. Da quel Progetto Formativo stiamo estraendo nuovi itinerari formativi che verranno consegnati alle associazioni “ab esperimentum” nel Convegno delle Presidenze che ci sarà nei prossimi mesi e che sarà dedicato alle “Responsabilità pubbliche dell’amore: matrimonio, famiglia, educazione”. Da questi elementi di rinnovamento stiamo raccogliendo la percezione che l’Associazione si stia rimettendo in movimento.

Proprio Luca Diotallevi (che è stato appena citato e che fa delle indagini sulle aggregazioni ecclesiali) ci dice che, applicando all’AC gli standard di carattere sociologico con cui vengono pesate le diverse aggregazioni ecclesiali, nel nostro caso con un indicatore molto formale rappresentato dall’ adesione, questo indicatore si dovrebbe raddoppiare virgola qualcosa. E questo significa che per ogni socio di AC c’è almeno un socio virgola qualcosa che il sociologo è portato a considerare come socio di AC. Questo significa che in Italia con questo elemento di integratore arriveremmo ad una cifra molto alta.

E del resto ci siamo stupiti di un dato che non potevamo conoscere, perché le ricerche erano affidate alle diocesi: che a Verona su 1127 delegati forse 60 forse qualcosa di più percento erano laici di AC, scelti ovviamente nella libera autonomia delle realtà diocesane. E, dicevo ieri sera, per la prima volta dopo 40 anni c’erano degli indicatori significativi perché negli ultimi 4 – 5 anni l’Associazione stava dimagrendo sempre di meno: c’è stato un dato oggettivo di una crescita dell’Associazione e l’indicatore di quest’anno ce lo conferma in maniera un po’ più sensibile e buona. Probabilmente questo rappresenta un fenomeno che va studiato attentamente, perché poi la cosa avviene a macchia di leopardo: soprattutto al Sud, meno nelle grandi città e più nelle realtà dove l’AC si è rinnovata, è capace di fare progetti intelligenti in comunione con il vescovo e con gli uffici pastorali, dove si fa una buona formazione, dove c’è un buon rapporto con gli assistenti.

Lo scorso anno abbiamo fatto come Presidenza questa scelta un po’ faticosa di visitare, tutta la Presidenza per intero insieme agli assistenti, regione per regione; abbiamo incontrato le delegazioni regionali e le presidenze diocesane e abbiamo verificato e studiato bene il quadro di ogni regione prima di questa visita ed effettivamente ci sono degli indicatori costanti che segnalano questa ripresa.

Dove l’Associazione fa un cammino di gruppo metodico, sereno, sistematico, coerente e non si rinuncia ad organizzare eventi in maniera un po’ intermittente; e dove vive questa comunione con la Chiesa che dicevo prima, le associazioni tornano a crescere. Tornano a crescere in qualche caso con percentuali veramente significative. E in questo momento probabilmente questo dato ci deve interrogare.

 

L’AC ha vissuto in maniera verticale il calo delle adesioni, che erano adesioni a volte considerate in maniera un po’ meccanica da parte delle realtà parrocchiali; i dati adesso sono reali e riflettono la situazione reale e non di adesioni promosse così, in automatico. Però l’Associazione ha patito in maniera molto forte dopo il ’68 quella ventata anti-istituzionale che era uno degli elementi fondamentali della contestazione. In quegli anni è stata vista nel suo aspetto più vistosamente politico, mentre l’elemento più subdolo che la veicolava era un altro e riguardava l’assolutizzazione di un principio di autonomia personale che oggi sta dilagando a tutto campo ma che nello stesso tempo sta cominciando a mostrare i suoi limiti. A quel principio di autonomia personale si accompagnava un sospetto indiscriminato nei confronti di tutte quelle istituzioni (dalla famiglia alla Chiesa, alla scuola, all’università, alla politica) che si costituiscono per proteggere, stabilizzare e promuovere i rapporti tra le persone. I rapporti tra le persone non hanno bisogno di vincoli istituzionali: i vincoli istituzionali sono piombo sulle ali della libertà individuale: questo è stato il grande messaggio che ha rappresentato la crisi anche della Chiesa, della scuola, della politica, di tutte le istituzioni.

In quegli anni sono nate nuove realtà, nuove aggregazioni ecclesiali e sono nate in un certo senso intercettando lo spirito dei tempi, cioè assecondando i valori della spontaneità, di quella immediatezza, del movimentismo che in quegli anni erano i valori che erano particolarmente accettati da tutti.

Oggi probabilmente stiamo registrando una stanchezza nei confronti di questo spontaneismo un po’ adolescenziale e un bisogno di punti di riferimento consolidati. Io sarei portato ad interpretare anche questo lievissimo trend positivo come il segno del fatto che si chiude una epoca segnata da una forte ventata anti-istituzionale e se ne apre un’altra, per la quale dobbiamo essere pronti in maniera responsabile. E dobbiamo essere grati ai soci e agli assistenti che hanno tenuto accesa quella fiammella in anni difficili (ieri ho incontrato alcuni vecchi soci di AC ai quali l’associazione deve essere particolarmente grata), perché è grazie a loro che oggi forse questa fiammella può diventare una fiamma.

 

Articolerei questo riferimento al valore aggiunto in 5 piste di riflessione che possono essere proprio una risposta specifica anche alle cose che mi sono state dette.

1.            Il primo valore aggiunto dell’associazione lo vedrei nella scommessa, che appartiene al codice genetico dell’AC, di assumere nella sua integralità la missione della Chiesa; di non assumere atteggiamenti selettivi nei confronti di questa missione; di non scegliere la parte, ma di scegliere l’intero, con tutte le difficoltà che questo comporta: comporta le difficoltà della sintesi, comporta le difficoltà di avere una visione capace di tenere in equilibrio tutti gli ingredienti che costituiscono la missione della Chiesa.

Quella organicità di cui si parla nei testi conciliari resta per noi prima di tutto il primo valore aggiunto dell’AC; il fatto cioè che oggi, soprattutto oggi, non è possibile cavalcare, trasformandola sul piano pastorale, la cultura del frammento. Da questo punto di vista vedrei proprio una risposta ad una sfida di carattere culturale: in una società che si è decomposta, si è frammentata e rispetto alla modernità non ha più il collante per tenere insieme i frammenti, l’AC ha sempre scommesso nella possibilità di presentarsi alla realtà diocesana come specialista della sintesi e non come specialista del frammento. Ripeto, con tutte le difficoltà che questo comporta, perché preparare un treno su cui possano salire i ragazzi, i giovani, gli adulti, e tenga conto delle situazioni delle Chiese locali non è la stessa cosa che cogliere un’intuizione e trapiantarla nello stesso modo, con lo stesso stile, a volte con la stessa inflessione gergale, da Torino a Catania.

Questo direi che è il primo valore aggiunto: la fedeltà alla missione integrale della Chiesa e della Chiesa diocesana in maniera particolare. La singolare forma di ministerialità laicale che viene attribuita dal magistero all’AC nasce prima di tutto da qui.

2.            In secondo luogo direi che il valore aggiunto sta nella forma associativa, nella volontà di aver tenuto ferma, in anni in cui anche culturalmente significava andare controcorrente, la barra sulla forma associativa. Noi sappiamo che questo non è un dato puramente organizzativo; non dobbiamo intenderlo così ma dobbiamo intenderlo in senso prima di tutto teologico e starei per dire antropologico, perché come battezzati, come è stato detto, noi siamo convinti che Lui ha creato non solo le persone ma anche la relazione fra le persone, che Gesù Cristo ha redento non solo le persone ma anche la relazione tra le persone, che la Chiesa evangelizza non solo le singole persone ma anche la relazione tra le persone.

Il valore aggiunto sta nel trasformare questa relazione in un vincolo associativo, in un vincolo che comporta una serie di impegni formali, che comporta una prassi democratica in cui ci si confronta e si prendono le decisioni rispettando una procedura condivisa; una prassi secondo la quale i responsabili vengono scelti in comunione con il vescovo al quale si affida l’ultimo compito e l’ultima parola sul Presidente diocesano (e sul Presidente nazionale allo stesso modo); la possibilità di elaborare, di costruire un binario che, come tutti i binari, rappresenta da un certo punto di vista un freno alla nostra voglia di andare a zigzag nella vita pastorale.

Ma il binario è come un volano: a volte ti chiede energia e sembra che non ti restituisca niente; altre volte, nei tempi morti, quando sei in difficoltà, ti restituisce la generosità di tante altre persone che su quel treno sono andate avanti, hanno avuto delle intuizioni. Pensiamo a quello che ha rappresentato per la Chiesa italiana l’intuizione della catechesi esperienziale per i ragazzi dell’ACR; e il fatto che questa intuizione, avendo trovato un tessuto associativo, è stata coltivata, è stata diffusa sistematicamente sul territorio nazionale, è sottoposta a verifiche continue. All’ultimo convegno gli educatori di ACR a Roma erano più di mille da tutta Italia…

C’è una realtà che si è impegnata perché la cosa è troppo preziosa per essere abbandonata alla intermittenza della spontaneità; e si è impegnata ad istituzionalizzare le cose come noi le vediamo. Il vincolo associativo è una risposta veramente alternativa ad una società che ammette soltanto legami di carattere contrattualistico, revocabili, fragili, corti. In una cultura che non riesce più a concepire l’idea che esistano società naturali perché è portata ad ammettere solo società convenzionali (pensiamo a tutto il dibattito sulla famiglia), dire che per un socio di AC è naturale che io possa scommettere sulla possibilità di verificare la mia fede sistematicamente in un gruppo, accanto a persone di età diversa, di estrazione sociale diversa, di condizione culturale diversa rappresenta sicuramente una grande ricchezza, un grande valore aggiunto.

Noi sappiamo che il valore aggiunto in senso generale c’è quando è qualcosa che è molto di più della somma delle parti. Nel mistero ecclesiologico noi sappiamo che è così, come vediamo in questa sala: noi siamo molto di più del numero di persone che possono essere contate; e il valore aggiunto è rappresentato dal legame che c’è tra le persone presenti in questa sala.

Ecco, l’Associazione nasce come la volontà di proteggere questa cura dei legami, proteggendoli anche attraverso una serie di fatiche associative. Dice il Vangelo che quando dobbiamo costruire una torre ci dobbiamo mettere attorno ad un tavolo (io tante volte ripeto questa frase nei momenti di maggiore fatica in Presidenza nazionale). Prendere delle decisioni insieme e guardare all’esercizio democratico in AC è un esercizio che in 140 anni non ha prodotto alla Chiesa, mai, nessuna reale difficoltà. Quindi è il segno che è possibile se viene fatto all’interno di un grande amore alla Chiesa, perché la possibilità di prendere decisioni insieme sul futuro dei nostri ragazzi, sulle scelte che dobbiamo fare, è un grandissimo valore aggiunto. In una società individualistica che celebra forme di autonomia a volte selvaggia è veramente un grande valore aggiunto.

3.            Dopo la forma associativa, il valore aggiunto sta nel dialogo intergenerazionale, che in AC dovrebbe essere costantemente coltivato, nel fatto che la stessa forma associativa è quella che può accogliere la cura dei ragazzi, il cammino dei giovani, il servizio di formazione degli adulti. Certo, attraverso un’articolazione, attraverso delle specificità, ma attraverso anche la capacità di vivere dei momenti di scambio, di vivere dei momenti di preghiera, di assecondare tutte quelle iniziative che soprattutto oggi favoriscano questi legami, questi legami intergenerazionali.

Viviamo in una società nella quale sono buone soltanto le relazioni che noi scegliamo. Per un ragazzo di oggi c’è questa equazione, che dobbiamo cercare costantemente di smontare, per cui è buono soltanto ciò che è volontario, mentre non ci vuole molto a capire che non tutte le relazioni volontarie sono buone solo perché sono volontarie: io posso aderire volontariamente ad una associazione mafiosa, ad un’associazione a delinquere. E viceversa, non tutte le relazioni involontarie sono cattive solo per il fatto che sono involontarie: io non ho scelto i miei genitori, non ho scelto mio fratello, non ho scelto il mio sesso, non ho scelto la Costituzione italiana, non ho scelto il Sistema Sanitario Nazionale, non ho scelto di nascere.

Questa capacità di riconoscere che la maggior parte dei fattori ai quali io debbo la mia identità non sono il prodotto di una mia scelta è un dato culturale di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno. In una Associazione nella quale andando in giro io non posso che riconoscere un debito di gratitudine nei confronti di tante persone, l’insegnare a un ragazzino a guardarsi alle spalle e a capire da dove viene quella cosa lì che gli viene donata gratis è un grande atto educativo soprattutto oggi, in un’epoca appunto in cui siamo convinti che ognuno di noi sia il fondamento di se stesso.

4.            Un quarto valore aggiunto lo indicherei nella formazione, nella sintesi formativa. Su questo io non vorrei ripetere alcune delle cose dette ieri sera, però non posso non sottolineare come la formazione oggi rappresenti una grande sfida alla cultura dell’immediatezza, cioè al rifiuto dell’apprendistato in qualsiasi campo, dalla professione alla vita di fede.

È stato recentemente pubblicato un libro (che in realtà aveva 30 anni) di un autore inglese, Sennett (“Il declino dell’uomo pubblico”), che legge questo nostro tempo in maniera veramente inquietante, paragonandolo alla fine dell’impero romano, e lo caratterizza come il tempo del narcisismo, dell’ideologia del vittimismo, sottolineando il “carattere incivile del narcisismo”: una cultura narcisistica non ha nessun interesse per i legacci vivi grazie ai quali invece siamo quello che siamo. E dice Sennett che in una cultura narcisistica non contano le cose che si fanno ma conta come ci sentiamo quando le facciamo, come ci si sente quando si fanno.

Ecco: la sfida formativa consiste nel riconoscere che oltre l’aspetto epidermico del “mi sento, non mi sento; mi và, non mi và” c’è una scommessa che è quella di dare forma alla vita. Non quindi di assecondare una cultura dell’evento, per dirci “siamo tanti”, “ne sappiamo fare di cose”, ma di elaborare degli itinerari grazie ai quali poi il laico adulto possa fare le sue scelte in economia, nella famiglia, nella politica.

Quindi attraverso la formazione l’Associazione non vuole essere ossessivamente direttiva nei confronti delle persone, vuole però offrire alle persone quella capacità di formare la loro vita nella sequela del Signore in modo tale che questa formazione le possa far crescere in pienezza.

E gli ingredienti di questa crescita formativa sono tanti ed è difficile dosarli.

Sappiamo che un itinerario catechistico non è automaticamente formativo solo per il fatto che è catechetico, nel senso che deve favorire tutta una serie di attitudini relazionali, di capacità psicologiche, di capacità pedagogiche che devono essere messe in equilibrio con l’annuncio del kerigma. E questa è la grande sfida e la grande scommessa. A volte certo questa attenzione per gli aspetti psicopedagogici può mortificare l’aspetto kerigmatico (e sarebbe un tradimento della nostra vocazione), ma esiste anche il pericolo opposto. C’è bisogno veramente, soprattutto oggi, in una cultura dell’immediatezza, di una grande capacità di sintesi.

5.            L’ultimo elemento che mi permetterei di suggerire per esplicitare questo invito a parlare del valore aggiunto è la capacità di un’associazione di laici ad entrare nel merito della missione che abbiamo davanti.

I 5 ambiti che nel Convegno ecclesiale di Verona ci sono stati proposti non sono una trovata estemporanea: noi vorremmo continuare a lavorare su di essi. Fra l’altro, l’Associazione promuoverà 5 giornate in 5 città italiane, invitando altre aggregazioni ecclesiali: parleremo a Taranto di lavoro e di festa, a Napoli di cittadinanza, forse a Milano o nei dintorni di fragilità, a Vicenza di tradizione, a Terni di affettività. Questi ambiti sono degli indicatori attraverso i quali il laico cristiano di AC deve aiutare tutta la Chiesa ad avere uno sguardo laico su queste regioni del vissuto, perché l’annuncio della fede possa entrare dentro queste visibili forme del vissuto.

Annunciare Gesù Cristo non significa mettere un cerotto religioso sopra un organismo neutro. E allora il vero problema per noi in questo riferimento al laicato è quello di abbandonare questo stereotipo di parlare sempre del laicato in termini di principio o nella rivendicazione di un’identità (perché si può morire nella Chiesa a forza di parlare dell’importanza del laicato). Si può applicare al laicato quello che ha detto Tettamanzi alla fine del suo discorso: “E’ meglio essere laici cristiani senza dirlo continuamente che proclamarlo sulla parola”.

Entrare nel merito significa incominciare ad entrare dentro questi ambiti e a vedere cosa significa oggi dentro l’affettività, capire che Gesù Cristo sta dentro l’amore e non sta fuori.

 

Concludo sottolineando questi due riferimenti che don Gianpaolo poneva; io concordo molto con quelle sottolineature che ha fatto e con quei quattro elementi finali che ha sottolineato.

Al termine della visita che come Presidenza abbiamo fatto in tutte le regioni abbiamo invitato il Presidente della Conferenza Episcopale e il segretario e abbiamo loro presentato i risultati di questo nostro cammino e quasi spontaneamente abbiamo riconosciuto e condiviso insieme a loro l’importanza che soprattutto in questo momento (ma questa cosa bisogna capirla bene perché rischia di essere fraintesa) l’AC non esaurisca la sua capacità formativa solo a livello intraecclesiale.

Oggi questo è molto importante, e noi dobbiamo essere richiamati a ripensare la scelta religiosa. Sappiamo che in un documento dei vescovi questa scelta fu, con un intento promozionale, presentata come scelta pastorale, però oggi questa etichetta rischia di essere fuorviante: è molto importante vivere questo impegno formativo non soltanto in senso intraecclesiale. L’AC non è un’agenzia interinale di formazione di catechisti: è un’Associazione che deve aiutare i laici cristiani a portare il Vangelo con uno stile evangelico (perché si può portare il Vangelo con uno stile che non è evangelico), più lontano possibile dalla Chiesa. In un discorso che Paolo VI fece in un Convegno di AC disse:” I laici di AC devono essere molto vicini e molto lontani”, nel senso di abituarsi, di abitare sempre di più la periferia estrema della Chiesa, se vogliono veramente fare missionarietà e non parlare di missionarietà.

L’altro elemento che raccolgo dall’introduzione che è stata fatta è questo rapporto tra AC e assistenti.

Noi stiamo facendo una riflessione teologica: con l’associazione teologica stiamo per promuovere l’incontro con un gruppo di teologi e un gruppo di vescovi, perché oggi questo è un grande nodo, che ci rende diversi, e dobbiamo giocare in positivo questa diversità. Rispetto ad altre realtà creative, che sono nate in un altro modo (che ovviamente non spetta a noi giudicare) e si possono scegliere il sacerdote e se lo vanno a prendere a trenta chilometri dal posto in cui stanno, non esiste il prete di AC: l’AC chiede alla Chiesa del posto in cui sta che il presbitero la accompagni.

Questa è la grande forza ma a volte è anche il grande problema, perché voi non ce la fate e perché noi se voi non ce la fate un gruppo di AC non lo facciamo nascere. In questo momento io ho la percezione documentata che potrebbero nascere tantissime associazioni di AC, però c’è questa difficoltà di trovare un accompagnamento nel sacerdote che è lì e non andarsi a prendere il prete che ci sta simpatico.

Questo comporta forse una riflessione teologico-pastorale sulla ministerialità: chi può essere l’assistente di AC? Questa è una riflessione che dovremo fare; però certo noi ci sentiamo di vivere questa situazione nella consapevolezza che non possiamo mettere sulle spalle del presbitero, del parroco, oggi, altri pesi oltre quelli quasi sempre sproporzionati che sta portando. Capiamo che a volte gli fa un po’ paura un’associazione complessa, in cui bisogna coinvolgersi, che non è un’aggregazione che ha in mano, che basta appaltargli un pezzo della parrocchia e se la gestisce da sola e non sono necessari tanti incontri.

Dobbiamo trovare una via di mezzo tra questi due estremi. Capiamo che non possiamo fuggire la complessità inseguendo una semplificazione della pastorale, appaltando pezzi di pastorale a qualche gruppo scelto con criteri di casualità; però noi teniamo moltissimo a questo rapporto, è una situazione per la quale cerchiamo di pregare e di aiutarci insieme.

Vi chiediamo di aiutarci e noi vorremmo aiutarvi ad aiutarci, nel senso che ovviamente l’AC non vuole essere un peso (non stiamo facendo propaganda…) ed è un servizio alla comunità ecclesiale nella misura in cui questo servizio risponde ad un bisogno reale. Noi siamo pronti a spenderci per questo. Però è un servizio nel quale la funzione del presbitero deve essere liberata sempre di più da tutti i pesi di carattere improprio che potrebbero essere messi sulle sue spalle; vorremmo elaborare tutti quegli strumenti che possono alleggerirlo il più possibile, ma non possiamo rinunciare, perché appartiene al nostro codice genetico, ad un rapporto con il presbitero che sta lì dove l’associazione potrebbe nascere. Quando questo viene capito e vissuto bene poi alla fine si risolve in una collaborazione reciproca, in una crescita reciproca.

È l’augurio che mi sento di fare anche a questa Chiesa, a questa Associazione che ha promosso questa iniziativa, sperando di continuare ad andare avanti insieme.

 

Grazie.

Luigi Alici

 

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