pubblicato su Camminiamo Insieme febbraio 2025
Tutti abbiamo fatto nella nostra vita almeno un pellegrinaggio. È stata un’esperienza che ci ha coinvolti emotivamente e spiritualmente: avevamo come meta visibile un “luogo santo”, ma la meta interiore era la nostra santificazione che si era intiepidita e sentivamo il bisogno di purificarla e potenziarla rivolgendoci alla santità del nostro Dio.
Quando si partecipa ad un pellegrinaggio che non è una gita, si lascia la propria casa e l’ambiente dove si vive quotidianamente per andare verso un “altrove” in cui ritrovare le proprie radici cristiane e attingere la grazia di cui siamo carenti. Il pellegrinaggio mette in movimento e per secoli è stato un mettersi in cammino a piedi, come i patriarchi dell’Antico Testamento e il popolo d’Israele nell’esodo.
Il pellegrinaggio fa ritornare al proprio cuore, che però è decentrato da sé stesso, un cuore nuovo e antico: antico perché è stato trovato dal Signore e insieme nuovo perché rigenerato dalla Misericordia.
Due sono gli elementi del pellegrinaggio: da una parte il viaggio stesso, l’essere in movimento, la strada che si percorre; dall’altra il “luogo santo” che si intende raggiungere.
Il viaggiare corre i rischi del “turismo religioso”, della commercializzazione, della fatica fisica, della compagnia di altri, ma se rimane viva la dimensione spirituale allora il camminare fa uscire dal proprio ambiente, fa vedere nuovi orizzonti e panorami che riempiono lo sguardo e il cuore; ci viene donata ricchezza di volti, di parole, di ambienti; si lascia alle spalle il luogo noto abitato da anni e ci si rivolge verso la meta, che è ignota ma ci assicura vita, pace e gioia duratura.
Il luogo da raggiungere deve essere chiaro fin da principio, perché non siamo vagabondi. La meta del pellegrino è individuata da lontano e desiderata come compimento, come “terra santa”, come quella che ha raggiunto Mosè o quella sulla quale si è tolto i sandali, come un essere faccia a faccia con il Signore, che mi fa dire “Dio è là!”. Un luogo è santo, è santuario, perché Dio Santo lo abita, perché lì Dio Padre attende i suoi figli perduti e dispersi. Un luogo è santo perché lì hanno abitato uomini e donne plasmati dallo Spirito d’Amore, che hanno vissuto in maniera “eroica” il Vangelo, il comandamento nuovo di Gesù di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati.
La santità di Dio è la grazia che trasforma il nostro vagare disordinato o le nostre fughe in un cammino verso la terra promessa che ci attende, verso il Regno di Dio dove ognuno trova il suo compimento.
Nell’esperienza cristiana il pellegrinaggio non è qualcosa di opzionale, ma è camminare verso un luogo centrale dove spazio e tempo danno senso e significato allo spazio e al tempo di tutti i giorni feriali.
Nella Bibbia il pellegrinaggio è illuminato dalla rivelazione di Dio, che propone la sua alleanza ai patriarchi e al popolo raccolto ai piedi del Sinai e al culmine della storia sacra manifesta il suo volto misericordioso in Gesù Cristo. Tre volte all’anno il popolo di Dio si recava in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme; per evitare le deviazioni superstiziose o idolatriche si alzava forte la voce dei profeti che richiamavano il legame profondo tra fede e pellegrinaggio e il cammino orientato a un fine preciso: Dio solo.
Devo menzionare la condizione di nomadi dei Patriarchi, che non avevano una terra stabile dove dimorare perché il Dio che offre la sua alleanza e benedizione non è il “Dio di un luogo” ma il “Dio di qualcuno”. Questa esperienza di Dio è decisiva per tutte le generazioni successive di Israele e l’esperienza dell’esodo, fatto di uscita dalla schiavitù, cammino nel deserto ed entrata nella terra promessa, è movimento di liberazione e di salvezza, tanto che la Lettera agli Ebrei la ricorderà come “figura” del cammino del cristiano che in Gesù Cristo ha la via e con lo Spirito (cfr. Gal 5,16) vive la vita nuova (Rom 6,4) nell’amore (Ef 5,2) e nella fede (2Cor 5,7).
Ai cristiani l’apostolo Pietro ricorda la loro identità di «stranieri e pellegrini» (1Pt 2,11) che dimorano sulla terra in maniera provvisoria perché la loro patria è nei cieli, verso cui si muovono obbedienti alla Parola di Dio senza contare su alcuna sicurezza mondana. La meta in questa lettera del Nuovo Testamento è il riposo, che si dà se si cammina animati da fede e speranza, perseveranza e fedeltà, essenzialità e povertà.
Infine, la Scrittura ci ricorda che il cammino del cristiano ha come meta l’incontro con Dio: il movimento fisico del pellegrinaggio è come un sacramento della conversione che connota senza fine tutta la vita cristiana. Nel pellegrinaggio cristiano, al cammino umano deve corrispondere il cammino del ritorno a Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito Santo.
Dio non sta solo alla fine del cammino di conversione come nella parabola del Padre misericordioso, ma sta all’inizio del nostro muoverci, perché è Lui che mette nel nostro cuore il desiderio di ritornare a Lui. Per questo si prega nel Salmo 80 «Signore, fa’ che ritorniamo!» e ancora in Lamentazioni 5,21 leggo: «Facci ritornare a Te, o Signore, e noi ritorneremo».
Compiere un pellegrinaggio fisico è compiere un esodo spirituale che implica un uscire dalla condizione di peccato o tiepidezza e un andare verso una meta che è il nostro Dio.
don Giampaolo